Anna Caterina Bellati

Il termine tedesco Einfùhlung allude alla possibilità di “sentire dentro” o di “sentirsi dentro” qualcosa. Il primo artista a formulare un’idea di pittura fondata su questo processo è Robert Vischer che nel 1873 studia alcuni appunti di suo padre, Friedrich Theodor Vischer, in cui si afferma: Le diverse dimensioni della linea e della superficie, le differenze del loro movimento agiscono simbolicamente; la verticale eleva, l’orizzontale amplia, la spezzata agisce più vivacemente della retta, ricordando il modo di piegarsi e cambiar direzione della vita interiore. Da qui trae origine l’idea di un’affinità tra le forme che abitano lo spazio e il sentire dell’uomo. E per conseguenza tra ciò che l’artista vede e le forme che crea. C’è in sostanza una sorta di continuità tra lo stimolo prodotto nel cervello da ciò che si guarda e l’immagine ricreata in un quadro. Già gli impressionisti avevano tenuto conto di questo legame tra visione e ricostruzione della realtà. In effetti Monet, Manet, Renoir miravano a riprodurre sulla tela l’immagine istantanea impressa sulla retina dagli stimoli luminosi, ricreando sulla tela una visione già depositata nella coscienza. Va a tale proposito indicata una distinzione fondamentale tra il vedere e il guardare: guardare contiene qualcosa di contemplativo e di mistico, è ciò che emoziona l’artista. In tal senso funziona la definizione che Konrad Fiedler in un saggio del 1876 dà del concetto di visibilità. La visibilità è finalizzata a trovare un ordine nel mondo fenomenico, cioè la realtà di ciò che appare. Si tratta quasi di una facoltà spirituale slegata dal puro fatto di vedere, è semmai qualcosa che concerne la memoria di ciò che si è visto e vissuto. L’attività artistica comincia quando l’uomo si trova davanti alla realtà, intesa quale realtà visibile, come di fronte a qualcosa di infinitamente problematico;quando egli spinto da un’interiore necessità afferra la massa delle visioni che lo circondano e  penetrano quasi con violenza e le sviluppa fino a dar loro forma determinata. Il processo che inizia nell’occhio e termina nella mano del pittore lo conduce dall’ oscurità e limitatezza delle sue rappresentazioni alla libertà e alla chiarezza dell’arte figurativa che diventa dunque l’espressione, il linguaggio della creazione oggettiva dell’immagine. Da qui prende le mosse l’espressionismo; da qui – non saprei quanto consapevolmente – nasce la maniera pittorica di Francesco Toraldo, uomo del sud, artista nato sotto la guida di un padre anch’egli pittore legato però a un paesaggio che si rifà alla scuola romantica.

Và subito detto che tutta la pittura di Francesco Toraldo si sviluppa da sempre in due direzioni: c’è un’inclinazione al colore mediata attraverso l’influenza di Guttuso, artista amato e ammirato dal quale riprende la strada cromatica nella solarità dei gialli pieni, nei rossi accesi e sfolgoranti, nei blu profondi. Ma c’è anche un percorso più asciutto e taciturno che è quello di un segno morbido eppure deciso, in cui il gesto pittorico è forte almeno quanto l’intensità del colore. In tal senso il lavoro di Toraldo vira verso il nord Europa, per quelle atmosfere fumose e pregne di odori e suoni che riempiono i suoi quadri dedicati al jazz. Questa mostra, inutile persino precisarlo, è tutta costruita sulle note del jazz. L’occasione è l’edizione 2005 di “Pescara Jazz” ma Toraldo non aveva davvero bisogno di un input esterno per mettere in atto quel procedimento del quale si parlava, il vedere e quindi l’esprimere un’emozione. Un vedere che intanto è sentire, sia nel senso comune del termine (che vale ascoltare) sia in forma più sotterranea e privata. Sentire che la musica può essere trasposta e, per usare un termine contemporaneo, masterizzata, in pittura. Le atmosfere notturne di tutta la produzione di Toraldo dedicata al jazz incastonano i suoni sulla tela mischiandoli al colore, anzi trasformandoli in colore. I volti noti dei più grandi jazzisti di ieri e di oggi si materializzano nei quadri e, benché la scelta di un figurativo teso all’informale ne sciolga i lineamenti, sono riconoscibili e vivi. Come viva e frizzante è la musica che suonano nei quadri. La tavolozza è giocata nei rossi accesi che sfumano in un bruciato denso, nei blu notturni quasi violacei in certe pieghe della musica che si fa scura e bassa, oppure in verdi bandiera aperti e squillanti e ancora in gialli decisi sporcati d’arancio. Ma è il nero a delimitare e definire la scena, mentre il bianco serve per rapprendere la luce là dov’è necessario. Sulla camicia e sui tasti del sassofono di Zoot Sims (Blue Note), sulle braccia e le mani di Richard Galliano e il suo jazz morbido sudamericano; sulle dita e sul viso concentratissimo di Gayle Parker, sulla barba  di Joe Henderson. Proprio la fonte della musica: mani, dita, bocca e dunque fiato, sbucano dal resto del dipinto grazie a questo bianco gessoso sapientemente mescolato a un’atmosfera che resta notturna.

Anche quando il colore avvampa. Lo swing di Duke Ellington, Cecil Taylor o Anthony Braxton fuoriesce dai dipinti e si spande nell’aria. E a produrre questa magia è il fraseggio tra gesto pittorico e colore. Non c’è dubbio che la musica in questa serie di dipinti sia al centro dell’interesse di Toraldo, eppure il tema non è stato pre-scelto, ma scoperto come si trattasse di un incontro fortunato. E in seguito il tema è venuto a coincidere con la pittura; il colore è appunto diventato non musica, ma una musica, il jazz. Questa mostra diventa così documento storico dedicato ad alcuni dei più grandi e amati jazzisti del mondo, ma è anche documento di come la sensibilità pittorica di un artista possa scatenare qualcosa di straordinario, vale a dire sollecitare non solo il senso della vista. I quadri di Rosso Jazz si possono sia guardare che sentire.

Va ancora aggiunto un dato importante. La stagione del jazz non è stata una scelta mediata da motivi di mercato, anzi. Con questa serie di lavori cominciati qualche anno fa, Toraldo si è presentato sulla scena italiana quasi controcorrente. In anni in cui l’iperfigurazione è dominante, decidere per una pittura che raccoglie nel tratto l’eredità dell’informale può persino essere un rischio. Eppure è stata una previsione esatta, perché solo la fluidità di una simile pittura e la serenità di un gesto libero potevano dare a questo tema quel movimento necessario alla ricostruzione  di una musicalità altrimenti impossibile da ottenere. Dunque si è trattato anche di un problema di forma. Il nostro artista ha deciso di non sacrificare nulla a un’estetica alla moda, ha preferito il respiro di lavori pieni di imprevisti e di sorprese, pescando nella propria coscienza il modo per realizzare l’intuizione che il suono possa essere anche colore.

Vale a dire la possibilità di rischiare attraverso il gesto pittorico coniugato con una determinata tavolozza. Che, come si è visto, possiede umori e variabili non così scontate. Ne è venuto fuori una sorta di informale spontaneo che ha condotto Toraldo a  costruire un nuovo capitolo nella oramai lunga storia di questa maniera nata. Dopo Corrente e il Nuovo Fronte delle Arti, dalla mano di Ennio Morlotti. Si deve tuttavia fare una precisazione: mentre l’informale sradica del tutto la forma dalla propria sede, il modo di procedere di Toraldo ne utilizza soltanto la liquidità del colore e la possibilità di sovrapporre le velature così da ottenere una pennellata non finita eppure capace ancora di descrivere ciò che accade, in questo caso l’accadere della musica.

Uomo e artista sensibile, con una passionalità trattenuta eppure vibrante, Toraldo ha trovato nel jazz una formula per raccontare il proprio pensiero pittorico riuscendo a imprimere sulla tela il ritmo e il cuore di quelle sonorità. Per questo la sua mostra inserita nel XXXIII Festival Internazionale del Jazz è non solo un omaggio ma un complemento garbato e significativo all’intera manifestazione. Rosso Jazz ha suggerito una sorta di scambio e contaminazione possibile fra due arti, dando il via a strade percorribili anche nel futuro.

Anna Caterina Bellati

Milano, primavera 2005.